[parlando della strage del Diana] Malatesta ha la conoscenza opportuna, sa che Mariani, Aguggini e gli altri sono compagni conosciuti e affidabili, quindi sa di trovarsi di fronte a un deprecabile errore, e affronta questo delicato argomento. Lamenta e si addolora per i morti ma anche lamenta e si addolora per la sorte dei compagni, per la responsabilità che si sono assunti e che del resto sono pronti a sostenere pagando di fronte alla cosiddetta giustizia. Quello che conta, egli dice, sono le intenzioni. Ma le intenzioni non erano pavimento dell’inferno? Certo, è proprio questo che afferma la morale borghese, sempre pronta a saltare addosso agli effetti, a vedere i risultati, a collocare il proprio giudizio sul metro economicistico. Questa coloritura morale la ritroviamo qualche volta fra gli anarchici stessi, i quali hanno chiesto, a Mariani, a Bertoli: “A chi può giovare questo tipo di azione?”. Soltanto alla repressione. Ecco la risposta. E da lì la conclusione dilaga senza più ritegno. È sempre la repressione che si giova di ogni azione che intende attaccare il nemico, che intende fare sentire un po’ più da vicino alle sue orecchie il gesto non proprio amichevole del ribelle. Quante sono le dichiarazione di estraneità che puntualmente si presentano di fronte a qualche avvenimento che esce appena dalle righe dell’ortodossia opinionista? Contarle non interessa a nessuno. Sono segno di sottigliezza politica di sicuro, ma anche di miopia morale. Malatesta invece corre il rischio di scendere all’inferno e parla delle intenzioni. Sa che queste non salvano della responsabilità (morale) gli assassini – perché di assassinii si tratta – ma sa anche che tacere, o peggio ancora accodarsi alle reprimenda dei tartufi, negherebbe lo stesso principio propagandistico dell’anarchia militante, tutti gli sforzi che giornalmente facciamo per convincere la gente della necessità di ribellarsi e attaccare il nemico che opprime e che sfrutta.
— Errico Malatesta e la violenza rivoluzionaria by Alfredo Maria Bonanno